Rispetto e tutele per i lavoratori delle testate del gruppo Ciancio sequestrate dal tribunale di Catania. È l’appello lanciato dalla sede della Federazione nazionale della Stampa italiana dal sindacato, dai rappresentanti delle Associazioni regionali di Stampa e dai Comitati di redazione della Sicilia e della Gazzetta del Mezzogiorno che si sono incontrati oggi a Roma per fare il punto della situazione in cui versano i giornali e le emittenti affidate agli amministratori Angelo Bonomo e Luciano Modica.
Mario Ciancio Sanfilippo è sotto inchiesta per presunto concorso esterno in associazione mafiosa. «Questo però non significa che i giornalisti delle sue testate siano coinvolti o conniventi con la mafia e la storia della Sicilia lo testimonia», hanno ribadito Vittorio Romano e Maria Ausilia Boemi, del Cdr, e il direttore del quotidiano siciliano, Antonello Piraneo.
«Nel rispetto del lavoro e delle esigenze di tutti, confidando nell’attività della magistratura e fermo restando il principio di non colpevolezza fino a sentenza definitiva, quello che preoccupa il sindacato è la situazione che i lavoratori delle testate, i giornalisti dipendenti e collaboratori e tutto il personale dei giornali e delle televisioni, si trovano costretti ad affrontare con il sequestro dopo aver già sopportato stati di crisi, ammortizzatori sociali e una crisi senza precedenti dell’intero settore», ha rilevato il segretario generale della Fnsi, Raffaele Lorusso.
«I magistrati hanno il delicato compito di indagare e di fare chiarezza su quanto accaduto in questi lunghi anni, ma auspichiamo che le indagini non pregiudichino il lavoro delle redazioni e, soprattutto, che gli amministratori tengano in debita considerazione la peculiarità delle aziende editoriali e non si limitino ad una gestione ragionieristica delle testate. Non accetteremo che siano spente altre voci libere del Mezzogiorno, dove giornali e aziende editoriali serie sono già pochissimi», hanno ribadito il segretario Lorusso e il presidente Giuseppe Giulietti.
Il segretario dell’Associazione Siciliana della Stampa, Roberto Ginex ha contestato che si sia arrivati a sequestrare anche le testate giornalistiche, nell’ambito di un impero economico ben più ampio e diversificato, e ha posto l’attenzione sulla sorte dei lavoratori, «in special modo dei collaboratori della Sicilia, che già hanno affrontato e affrontano grandi difficoltà economiche».
Anche il presidente dell’Assostampa Puglia, Bepi Martellotta, ha puntato i riflettori sulla questione dei collaboratori della Gazzetta del Mezzogiorno, «in una situazione economicamente già molto delicata di un giornale che comunque resiste sul mercato, a riprova della qualità del prodotto giornalistico e del lavoro dei giornalisti che lo realizzano», ha osservato.
Umberto Avallone, presidente della Associazione della Stampa di Basilicata ha denunciato come «l’editore non si sia mai interessato del rilancio del giornale, anzi: l’azienda è arrivata a chiudere la redazione di Matera della Gazzetta del Mezzogiorno proprio qualche mese prima dell’inizio delle celebrazioni per Matera Capitale della Cultura 2019».
Di «frustrazione e preoccupazione» ha parlato Giovanni Longo, del Cdr della Gazzetta del Mezzogiorno, mentre il Comitato di redazione e il direttore della Sicilia e il presidente dell’Assostampa Siciliana, Alberto Cicero, hanno respinto con forza le accuse della procura sulle presunte ingerenze dell’editore sulla linea editoriale e stigmatizzato gli attacchi ai cronisti del giornale. «Nessuno si deve permettere di dare una patente a nessuno di noi giornalisti della Sicilia», ha detto il direttore Piraneo. I giornalisti del quotidiano di Catania hanno anche scritto una lettera aperta al presidente Mattarella.
Solidarietà e vicinanza ai lavoratori delle testate coinvolte nel sequestro di beni a carico di Mario Ciancio Sanfilippo è stata espressa anche dal segretario generale aggiunto della Fnsi e segretario del Sindacato dei Giornalisti della Calabria, Carlo Parisi, e dal vicepresidente vicario dell’Inpgi, Giuseppe Gulletta.
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Il video della conferenza stampa è disponibile sul sito web di Radio Radicale (cliccando qui).
PER APPROFONDIRE
Di seguito il documento del Cdr della Sicilia letto in conferenza stampa da Maria Ausilia Boemi.
Come Cdr de La Sicilia siamo anzitutto estremamente preoccupati, insieme con tutti i nostri colleghi – non solo i giornalisti, ma anche tecnici, tipografi, amministrativi, impiegati, operai: centinaia di lavoratori e famiglie – dicevo, siamo principalmente preoccupati per la tenuta dell’occupazione nelle varie aziende poste sotto sequestro o confisca. Un problema ancora più grave in un tessuto economico estremamente fragile come quello siciliano, dove “reinventarsi” e ricollocarsi nel lavoro è estremamente difficile, molto più che in altre parti d’Italia, anche perché in Sicilia non ci sono proprio segnali, a oggi, di attenuazione della crisi economica.
Siamo estremamente preoccupati, come giornalisti e come cittadini italiani, anche per il rischio di chiusura di testate storiche della carta stampata e della televisione, oltre che di testate più recenti – avviate e portate avanti con forze minime e risultati però lusinghieri – come quelle sul web. Una chiusura significherebbe un impoverimento dell’informazione e un colpo pesante alla democrazia di questo Paese: la democrazia è infatti garantita solamente dalla pluralità delle fonti di informazione.
Noi da anni – come tutti i giornali italiani – abbiamo conti in rosso e siamo in stato di crisi: noi giornalisti da novembre 2013 prima in solidarietà, poi in cassa integrazione finalizzata anche al prepensionamento. E infatti abbiamo già perso l’apporto prezioso di 12 colleghi, che si sono aggiunti a quello di una serie di altri che, negli anni precedenti, sono stati incentivati all’esodo. E i colleghi della tipografia e dello stabilimento di stampa, anche loro decimati dalla crisi, lavorano tuttora con una percentuale di solidarietà pesantissima.
Nonostante le forze diminuite drasticamente, in un quadro di crisi gravissima che attanaglia tutti i giornali in Italia, ci sforziamo ogni giorno di creare un prodotto sempre migliore, facendo inchieste (in alcuni casi veri e propri scoop, o comunque esclusive), raccontando una terra piena di contraddizioni, bellissima ma nello stesso tempo martoriata. Martoriata dalla mafia, e lo abbiamo scritto migliaia, milioni di volte. Martoriata dal malaffare, e lo abbiamo scritto migliaia, milioni di volte. Martoriata da una classe politica spessissimo non all’altezza della situazione, e lo abbiamo scritto migliaia e milioni di volte. Martoriata anche da una carenza diffusa di senso civico. Solo per fare qualche esempio, di quelli che ci sono venuti in mente: inchiesta (scoop) recentissima su una banca catanese, protagonista di un crac e poi commissariata da Bankitalia nel mentre che gli amministratori contestavano i nostri pezzi che hanno anticipato il commissariamento. Inchiesta Cara di Mineo, in cui abbiamo anticipato le indagini su Castiglione, allora sottosegretario. Abbiamo scritto vari articoli su gettonopoli e firmopoli al Comune di Siracusa, che hanno fatto aprire inchieste giudiziarie in cui è stato coinvolto anche l’ex sindaco: il collega Massimo Leotta è stato ospite in tv sulla Rai e dalle Iene, per raccontare cosa stava avvenendo. Inchiesta mafia-massoneria a Catania con dettagli, retroscena e verbali “a puntate” firmati da Concetto Mannisi, il collega del caso Ercolano del 1993 che da allora continua a occuparsi di cronaca nera, mafia, del boss Ercolano e degli altri. Caso Montante: la vicenda giudiziaria è stata seguita passo passo con carte dell’accusa “inedite”. A tal proposito, abbiamo intervistato anche l’ex assessore regionale Nicolò Marino, magistrato di punta del pool antimafia di Catania negli anni che portarono, fra l’altro, all’arresto di Santapaola, che parlò di “sistema Montante” prima ancora dello scoop di Repubblica sull’inchiesta che coinvolgeva l’ex presidente di Sicindustria. La vicenda dei loschi affari al mercato ortofrutticolo di Vittoria da cui partono le minacce al cronista antimafia Paolo Borrometi è stata pubblicata su La Sicilia lo stesso giorno in cui è stata fatta uscire da Borrometi (non dopo, come ci accusano di essere soliti fare). E sempre a proposito dei presunti ritardi nella pubblicazione delle notizie, ricordiamo la requisitoria al maxiprocesso di Palemo, seguita da tre redattori (due inviati da Catania), pubblicata lo stesso giorno di tutti gli altri giornali. E poi l’anniversario Falcone, con un articolo del magistrato del pool antimafia Giuseppe Ayala in prima pagina. Andando ancora indietro nel tempo, inchieste a puntata su mafia e baby criminalità, con interviste anche al giudice Scidà, anticipatore di temi sui quali si basano le odierne associazioni antimafia; e poi inchieste a puntate su droga, alcolismo, con un taglio sociale. Siamo stati tacciati di essere il giornale morbido coi potenti e i Palazzi? La dottoressa violentata a Trecastagni ha scritto ad esempio un fondo sulla nostra prima pagina accusando Asp e autorità varie. E poi decine e decine di inchieste varie su lavoro, infrastrutture carenti, cercando di essere vicini ai più deboli e pungolando i potenti e i Palazzi per i ritardi, per le promesse non mantenute.
Parliamo poi delle nostre vittime? Anzitutto l’eroe Beppe Alfano, martire ucciso dalla mafia per i pezzi che scriveva – e che venivano regolarmente pubblicati su La Sicilia – da Barcellona Pozzo di Gotto. Beppe Alfano è stato ucciso dalla mafia per ciò che scriveva – senza censure – sul nostro giornale. E domani sul nostro quotidiano scriverà la stessa figlia di Beppe Alfano, Sonia, per ribadirci la sua vicinanza e sottolineare che il giornale non deve morire, anche per rispetto della memoria del padre Beppe Alfano. Possiamo poi ricordare le auto bruciate a Maria Concetta Goldini a Gela, a Lucio Gambera a Palagonia. Del ferimento di Carlo Rapicavoli, che si occupava dell’area etnea negli anni dello strapotere del Malpassotu e che venne minacciato e sfregiato in volto, si occupò la Prefettura di Catania. Prefetto era allora Salazar, poi ai vertici del Sisde. Per non parlare delle altre decine di corrispondenti che negli anni hanno subito e continuano a subire attacchi pubblici e minacce e non solo sui social network per quello che scrivono giornalmente.
Non ultimo, citiamo lo stesso presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, siciliano peraltro colpito nei suoi affetti più cari dalla terribile violenza mafiosa, in un articolo del 15 marzo 2015 che abbiamo pubblicato in prima pagina – non un laconico telegramma – scritto in occasione dei 70 anni della testata, ha parlato de La Sicilia come di un giornale che “continua a rappresentare con la professionalità di coloro che la animano una voce che guarda alle attese di forze vive della società, al lavoro per l’innovazione e il progresso, energie che non rinunciano all’esercizio e della critica impegnate nell’affermazione del principio di legalità in un contesto spesso difficile”. Parole che si possono riferire a una redazione asservita alla mafia?
E qualcuno potrebbe forse mai avere dubbi sulla statura professionale e umana di firme del nostro giornale come Pippo Fava, Pietro Barcellona, Leonardo Sciascia, Giuseppe Giarrizzo, Gesualdo Bufalino? Per non parlare di tanti magistrati che scrivono sul nostro giornale (e continuano a scriverci, peraltro).
Cerchiamo poi di raccontare anche quanto di bello c’è in questa Isola che non è solo mafia, ma è anche lavoro, volontariato, senso civico e passione dei tantissimi – e sono la stragrande maggioranza – siciliani onesti.
Troppo poco? Forse. Sono stati commessi errori negli anni? Sicuramente sì. Ma i nostri sforzi ciclopici sembravano cominciare a produrre qualche impercettibile segnale positivo: da qualche mese siamo stabilmente il giornale più venduto e più letto della Sicilia e il nostro sito web ha recuperato posizioni di mercato importanti. Segnali che non possono bastare a sistemare i conti (l’editoria, quella tradizionale almeno, è in grande affanno ovunque), ma che testimoniano un gradimento da parte della gente, dei nostri lettori: i nostri unici padroni. Certamente, apprezzamenti non ne possiamo ottenere purtroppo tra coloro che non leggono il giornale ma ci attribuiscono – e sono tanti – la patente di mafiosi, collusi, asserviti, silenziosi e via dicendo, senza neanche sapere cosa pubblichiamo o non pubblichiamo.
La redazione e tutti i lavoratori del gruppo siamo indignati, amareggiati, addolorati, arrabbiati per la patente di “mafiosi” o collusi o asserviti alla mafia, o comunque silenziosi o proni al potere che dall’esterno – per i motivi più vari – ci viene affibbiata. Quella di essere mafiosi è l’accusa più infamante e terribile da lanciare a giornalisti (ma non solo), specie se lanciata, senza prove, da altri giornalisti. Lo ribadiamo con assoluta forza, a testa alta e senza vergogna, lo urliamo: noi non siamo mafiosi, la mafia fa schifo, la mafia è cacca. Lo abbiamo sempre pensato, lo abbiamo sempre detto, lo abbiamo sempre scritto e pubblicato: e nessuno ci ha mai dettato linee editoriali vicine alla mafia.
Nessuno mi ha mai impedito di scrivere alcunché: vero è che io non mi occupo di cronaca nera e giudiziaria, ma ho intervistato politici, economisti, imprenditori, senza che nessuno mai mi “suggerisse” o imponesse alcunché, che tipo di domanda fare e quale non fare. E come me, gli altri. Ma anche i colleghi che si occupano di cronaca nera e giudiziaria hanno sempre potuto scrivere liberamente. Gli unici vincoli ai quali ci siamo attenuti – da giornalisti – sono la deontologia professionale e il rispetto delle leggi alle quali noi giornalisti siamo tenuti. L’unica domanda posta dall’editore ex direttore Mario Ciancio a chi doveva scrivere di mafia o di altri argomenti più “delicati” era: “Ha le carte? Allora scriva”.
Io non sono mafiosa, i miei colleghi non sono mafiosi: la responsabilità penale è personale, fino a prova contraria. Se qualcuno ha da contestare a ciascuno di noi comportamenti mafiosi, collusioni mafiose proceda penalmente contro ciascuno dei giornalisti che, nella conferenza stampa, lo stesso procuratore ha detto essere “alte professionalità da preservare”. Altrimenti, la si smetta con i veleni. E si lavori per preservare le centinaia di posti di lavoro, le “alte professionalità” riconosciute dalla Procura, che sono a rischio, come dicevo all’inizio, in una terra in cui la fame di lavoro è drammatica.